D.Lgs. 231/01 - Giurisprudenza

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 10561 del 5.3.2014, investite della soluzione dei contrasti giurisprudenziali relativi alla possibilità di sequestro finalizzato alla confisca su beni della persona giuridica per reati tributari, si interrogano sull’assenza dei Reati Tributari stessi tra i reati presupposto della Responsabilità Amministrative degli Enti ex D.Lgs. 231/01.

Tale assenza, cui già in precedenza la giurisprudenza ha tentato di trovare correttivi dando ingresso all’applicazione del D.Lgs. 231/01 mediante la contestazione del reato di Associazione a delinquere ex art. 416 c.p. finalizzato alla commissione dei Reati Tributari ed altresì mediante l’applicazione della Legge 146/2006 sui reati associativi transnazionali (cfr. Cass. Pen. Sez. III n. 5869/11, Cass. Pen. Sez. III n. 11969/11 e Cass. Pen. Sez. III n. 24841/13), è stata ora fermamente criticata dalle Sezioni Unite che hanno affermato quanto segue:

Le Sezioni Unite sono consapevoli che la situazione normativa delineata presenta evidenti profili di irrazionalità, oltre che per gli aspetti già segnalati nell’ordinanza di rimessione, anche perchè il mancato inserimento dei reati tributari fra quelli previsti dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, rischia di vanificare le esigenze di tutela delle entrate tributarie, a difesa delle quali è stato introdotto la L. n. 244 del 2007, art. 1, comma 143.

Infatti è possibile, attraverso l’intestazione alla persona giuridica di beni non direttamente riconducibili al profitto di reato, sottrarre tali beni alla confisca per equivalente, vanificando o rendendo più difficile la possibilità di recupero di beni pari all’ammontare del profitto di reato, ove lo stesso sia stato occultato e non vi sia disponibilità di beni in capo agli autori del reato. Dovendosi anche sottolineare come la stessa logica che ha mosso il legislatore nell’introdurre la disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti finisca per risultare non poco compromessa proprio dalla mancata previsione dei reati tributari tra i reati-presupposto nel d.lgs. n. 231 del 2001, considerato che, nel caso degli enti, il rappresentante che ponga in essere la condotta materiale riconducibile a quei reati non può che aver operato proprio nell’interesse ed a vantaggio dell’ente medesimo.

Tale irrazionalità non è peraltro suscettibile di essere rimossa sollevando una questione di legittimità costituzionale, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale l’art. 25 Cost., comma 2, deve ritenersi ostativo all’adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore. (Sez. U, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244189).

Le Sezioni Unite non possono quindi che segnalare tali irrazionalità ed auspicare un intervento del legislatore, volto ad inserire i reati tributari fra quelli per i quali è configurabile responsabilità amministrativa dell’ente ai sensi del D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231″.

cliccare qui per scaricare il testo completo della sentenza Cass. Pen. Sez. Un.n. 10561 del 5.3.2014

Con sentenza n. 10265 emessa dalla Sezione V della Corte di Cassazione Penale, pubblicata il 4.3.2014, la Suprema Corte affronta, nella prima parte della motivazione, il tema dell’interesse o vantaggio quali criteri alternativi di imputabilità dell’ente, in rapporto alla previsione di esclusione dalla responsabilità 231 nel caso in cui l’autore del reato abbia agito “nell’interesse esclusivo proprio o di terzi” (art. 5 co. 2 D.Lgs. 231/01).
Prosegue la Corte soffermandosi ampiamente sulla nozione di “profitto” confiscabile.

Ciò che qui più interessa, lasciando per il resto alla lettura della sentenza (qui scaricabile: Cass.Pen. sez. V n. 10265/14) è un passaggio intermedio della sentenza in cui la Suprema Corte afferma il principio secondo cui, benchè l’art. 25 ter D.Lgs. 231/01, relativo ai Reati Societari, preveda l’applicazione delle indicate sanzioni qualora tali reati siano “commessi nell’interesse della società”, senza in alcun modo menzionare il diverso criterio del “vantaggio”, ciò nonostante anche per i Reati Societari vanno applicati i distinti autonomi criteri dell’interesse o del vantaggio, quali presupposti alternativi per l’affermazione di responsabilità dell’ente.

Si riporta di seguito il percorso logico seguito sul punto nella sentenza:

“A completamento dell’interpretazione del contesto normativo di riferimento, è necessario affrontare una ulteriore questione, solo incidentalmente evocata nel ricorso alle pp. 6 e 7. Infatti la responsabilità amministrativa di Italease è stata ritenuta, nel caso di specie, anche in riferimento ai reati presupposto di ostacolo alla vigilanza (art. 2638 c.c.) e false comunicazioni sociali (art. 2622 c.c.), entrambi contemplati nel catalogo di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 25 ter. Tale ultima disposizione, peraltro, a differenza del già citato comma 1 dell’art. 5, menziona il solo “interesse” quale criterio ascrittivo dell’illecito, scelta che potrebbe rivelare l’apparente intenzione legislativa di ridimensionare l’area della responsabilità dei soggetti collettivi in relazione ai reati societari. Ad una analisi più attenta, però, la disposizione non tarda a smentire ogni effettiva volontà di ripensamento strutturale dell’illecito nel caso questo consegua alla consumazione di un reato societario. Piuttosto sembra valere da indizio sistematico, in uno con la previsione del comma 2 dell’art. 5, alla comprensione dei due termini (interesse e vantaggio) come concettualmente autonomi e non di meno equivalenti espressivi di una funzionalità del comportamento criminoso individuale rispetto all’ottenimento di un risultato che avvantaggi l’attività sociale, nella quale, del resto, si trova racchiusa l’unica prospettiva di “interesse” concepibile in capo ad un soggetto giuridicamente organizzato.

L’art. 25 ter, infatti, è stato introdotto dalla riforma del diritto penale societario realizzata attraverso il D.Lgs. n. 61 del 2002, la cui Relazione, a proposito della disposizione in esame, espressamente precisa come la responsabilità degli enti collettivi per i reati societari sia stata configurata “nel rispetto dei principii contenuti nella L. 29 settembre 2000, n. 300 e nel D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231”, ribadendo in tal modo l’identica direttiva contenuta nella legge delega del D.Lgs. n. 61 del 2002 (L. n. 366 del 2001, art. 11). E sì vero che proprio la legge delega per prima ha poi menzionato esclusivamente l’interesse per descrivere il contesto imputativo dell’illecito, ma proprio la premessa da cui il legislatore delegante ha preso le mosse evidenzia l’assenza della volontà di configurare all’interno del D.Lgs. n. 231 del 2001 una sorta di sottosistema dedicato alla responsabilità da reato societario governato da regole autonome rispetto a quelle dettate nella parte generale del decreto.

E’ possibile quindi concludere ribadendo che la formulazione dell’art. 25 ter opera più apparentemente che sostanzialmente un allontanamento dai criteri di imputazione generale previsti dalla disciplina del D.Lgs. n. 231 del 2001, criteri che pertanto trovano applicazione anche in ambito societario, nonostante la dubbia tecnica di redazione del testo di legge”.

Con sentenza n. 4677 del 18.12.2013, pubblicata il 30.1.2014, la Corte di Cassazione Penale, Sez. V, ha annullato con rinvio la sentenza assolutoria pronunciata dalla Corte di Appello di Milano, a fronte del ricorso presentato dal Procuratore Generale.

Nella motivazione di tale sentenza, la Suprema Corte ha affermato alcuni principi che riteniamo meritino un commento critico e che ci auguriamo possano trovare occasione di approfondimento ed, in parte, di ripensamento da parte dei giudici di legittimità, per quanto andremo qui ad argomentare.

Leggi l’articolo di commento alla sentenza 4677/14

Testo della sentenza Cass. Pen. Sez. V 4677/14

Sintesi

Per la Suprema Corte “nessuna inversione dell’onere della prova è … ravvisabile nella disciplina che regola la responsabilità da reato dell’ente, gravando comunque sull’accusa l’onere di dimostrare la commissione del reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui all’art. 5 d.lgs. 231 e la carente regolamentazione interna dell’ente”.

Cass. Pen. Sez. VI 27735_2010

Sintesi

Per la Suprema Corte “nessuna inversione dell’onere della prova è … ravvisabile nella disciplina che regola la responsabilità da reato dell’ente, gravando comunque sull’accusa l’onere di dimostrare la commissione del reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui all’art. 5 d.lgs. 231 e la carente regolamentazione interna dell’ente”.

Sintesi

Prima sentenza del Giudice Unico del Tribunale di Trani, Sezione di Molfetta, sulla Responsabilità Amministrativa per i reati di omicidio colposo plurimo e lesioni gravissime per inosservanza delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori. Il Giudice ha svolto nella motivazione una puntuale analisi della normativa D.Lgs 231/01 e sull’integrazione con l’art. 30 del D.Lgs 81/08 ed ha chiarito vari punti importanti concernenti i requisiti normativamente richiesti per la sussistenza e l’idoneità del Modello integrato per ottenere gli effetti esimenti di non responsabilità dell’Ente. La sentenza sarà sicuramente oggetto di valutazioni ed osservazioni ma per il momento potrà fornire linee guida utili per la redazione del Modello integrato, senza incorrere in errori macroscopicamente rilevanti ed anche economicamente controproducenti.

TRIBUNALE DI TRANI 26.10.2009-11.1

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