D.Lgs. 231/01 - Resp.tà Amministrativa

È stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, serie generale n. 258 del 4.11.2017,  la Legge 161 del 17.10.2017 riguardante “Modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n.159, al codice penale e alle norme di attuazione, di  coordinamento e transitorie del codice di  procedura penale e altre disposizioni. Delega al Governo per la tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate” che entrerà in vigore il 19.11.2017.
Tale provvedimento modifica varie normative (riguardanti le misure di prevenzione personali e patrimoniali; l’amministrazione, gestione e destinazione di beni sequestrati e confiscati, la Tutela dei terzi e rapporti con le procedure concorsuali) tra cui il D.Lgs. 231/01 relativo alla responsabilità amministrativa degli enti.

In particolare su questo tema la Legge 161/2017 prevede:
–  all’art. 11 (Controllo giudiziario delle aziende) l’introduzione nel D.Lgs. 159/2011 di un nuovo articolo,  34-bis,  il quale dispone che con il provvedimento che nomina l’amministratore giudiziale, il Tribunale può stabilire “ i  compiti   dell’amministratore   giudiziario finalizzati alle attività di controllo e può imporre l’obbligo: … di adottare ed  efficacemente  attuare  misure  organizzative, anche ai sensi degli articoli 6, 7 e 24-ter del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e successive modificazioni;
–  all’art. 30, co. 4 l’introduzione di nuovi delitti previsti all’art. 12 del D.lgs. 286/1998 riguardanti il procurato ingresso illecito ed il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, all’interno dell’art. 25 duodecies del D.Lgs. 231/01 con l’applicazione delle relative sanzioni pecuniarie ed interdittive.

Si riporta il testo del nuovo art. 25 duodecies del D.Lgs. 231/01 come modificato dalla legge 161/2017

Art. 25-duodecies  (Impiego  di  cittadini  di  paesi terzi il cui soggiorno è irregolare)

1.In relazione  alla commissione del delitto di cui all’articolo 22,  comma 12-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286,  si  applica all’ente la sanzione pecuniaria da 100 a 200 quote, entro il limite di 150.000 euro.
1-bis.  In  relazione  alla  commissione  dei   delitti   di   cui all’articolo 12, commi 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico  di  cui  al decreto  legislativo  25  luglio   1998,   n.   286,   e   successive modificazioni,  si  applica  all’ente  la  sanzione   pecuniaria   da quattrocento a mille quote.
1-ter.  In  relazione  alla  commissione   dei   delitti   di   cui all’articolo  12,  comma  5,  del  testo  unico  di  cui  al  decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e  successive  modificazioni,  si applica all’ente la sanzione pecuniaria da cento a duecento quote.
1-quater. Nei casi di condanna per i delitti di cui ai commi  1-bis e 1-ter del presente articolo, si applicano le sanzioni  interdittive previste dall’articolo 9, comma 2, per una durata non inferiore a  un anno”.

Per completezza di seguito si riportano i commi richiamati dell’art. 12 del D.lgs. 286/1998

Art. 12 Disposizioni contro le immigrazioni clandestine
….
3.Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, in violazione delle disposizioni del presente testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente, è punito con la reclusione da cinque a quindici anni e con la multa di 15.000 euro per ogni persona nel caso in cui:
a) il fatto riguarda l’ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone;
b) la persona trasportata è stata esposta a pericolo per la sua vita o per la sua incolumità per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale;
c) la persona trasportata è stata sottoposta a trattamento inumano o degradante per procurarne l’ingresso o la permanenza illegale;
d) il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro o utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti;
e) gli autori del fatto hanno la disponibilità di armi o materie esplodenti.
3-bis. Se i fatti di cui al comma 3 sono commessi ricorrendo due o più delle ipotesi di cui alle lettere a), b), c), d) ed e) del medesimo comma, la pena ivi prevista è aumentata.
3-ter. La pena detentiva è aumentata da un terzo alla metà e si applica la multa di 25.000 euro per ogni persona se i fatti di cui ai commi 1 e 3:
a) sono commessi al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento sessuale o lavorativo ovvero riguardano l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento;
b) sono commessi al fine di trarne profitto, anche indiretto.
…………..
5. Fuori dei casi previsti dai commi precedenti, e salvo che il fatto non costituisca più grave reato, chiunque, al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero o nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo, favorisce la permanenza di questi nel territorio dello Stato in violazione delle norme del presente testo unico, è punito con la reclusione fino a quattro anni e con la multa fino a lire trenta milioni. Quando il fatto è commesso in concorso da due o più persone, ovvero riguarda la permanenza di cinque o più persone, la pena è aumentata da un terzo alla metà.

Il testo completo della Legge 161/2017 è consultabile nel sito internet della Gazzetta Ufficiale al seguente indirizzo.

http://www.gazzettaufficiale.it/atto/serie_generale/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2017-11-04&atto.codiceRedazionale=17G00176&elenco30giorni=false

 

È stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.75 del 30 marzo 2017 ed entrerà in vigore il 14 aprile 2017, il D.Lgs. 38/2017 (Attuazione  della decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio del 22 luglio 2003, relativa lla lotta contro la corruzione nel settore privato) che introduce importanti modifiche alla disciplina della corruzione tra i privati.
Tale Decreto dà attuazione e recepisce quanto stabilito dalla decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio dell’Unione Europea relativa alla lotta contro la corruzione tra privati.

Giova ricordare che la corruzione tra privati, prima di tale Decreto, prevedeva due particolari forme di corruzione passiva (per soggetti intranei):
la prima era prevista per gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sè o per altri, compivano od omettevano atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società (co.1);
la seconda si configurava in caso di commissione della stessa condotta da parte di chi era sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma (co.2).
Era prevista inoltre al co.3 una forma di corruzione attiva nel caso in cui un soggetto qualsiasi (soggetto estraneo) avesse dato o promesso denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e nel secondo comma. Per tale forma di corruzione scattava inoltre la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote prevista dall’art. 25 ter co.1 lett. s bis del D.Lgs. 231/01 in caso di responsabilità amministrativa degli enti.

In dettaglio riportiamo le modifiche apportate dal Decreto Legislativo 38/2017:

  1. Modifiche all’art. 2635 c.c.(Corruzione tra privati)

L’art. 3 del D.Lgs 38/2017 interviene sull’art. 2635 c.c. :

  • includendo tra i soggetti attivi autori del reato, oltre a coloro che rivestono posizioni apicali di amministrazione e di controllo, anche coloro che svolgono attività lavorativa mediante l’esercizio di funzioni direttive ;
  • estendendo la fattispecie anche ad enti privati non societari;
  • ampliando le condotte cui si perviene all’accordo corruttivo. Nella corruzione passiva viene inclusa anche la sollecitazione del denaro o altra utilità  da parte del soggetto “intraneo” qualora ad essa segua la conclusione dell’accordo corruttivo, e nella corruzione attiva anche l’offerta di denaro o altra utilità da parte del soggetto “estraneo”, qualora essa venga accettata dal soggetto “intraneo”.
  • Prevedendo espressamente tra le modalità della condotta,  sia nell’ipotesi attiva che in quella passiva, la commissione della stessa per interposta persona;
  • specificando che il denaro o altra utilità sono non dovuti;
  • togliendo il riferimento alla necessità che la condotta cagioni un nocumento alla società;
  • prevedendo che la confisca per equivalente ricomprenda anche le utilità offerte, e non solo date o promesse.

Alla luce di quanto sopra esposto si riporta il nuovo art. 2635 c.c. (Corruzione tra privati)
“  Salvo che il fatto costituisca  più grave  reato,  gli  amministratori,  i   direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, di società o enti privati che, anche per interposta persona, sollecitano o ricevono, per se  o  per altri, denaro  o  altra  utilità non  dovuti,  o  ne  accettano  la promessa, per compiere o per omettere un  atto  in  violazione  degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà,  sono puniti con la reclusione da uno a tre anni. Si applica la stessa pena se il fatto  è commesso  da  chi  nell’ambito  organizzativo  della società o dell’ente privato esercita funzioni direttive  diverse  da quelle proprie dei soggetti di cui al precedente periodo.
  Si applica la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma.
  Chi, anche per interposta persona, offre, promette o dà denaro o altra utilità non dovuti alle persone indicate nel primo e nel secondo comma, è punito con le pene ivi previste.
  Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell’Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell’articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni.
  Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi.
  Fermo quanto previsto dall’articolo 2641, la misura della confisca per valore equivalente non può essere inferiore al valore delle utilità date, promesse o offerte”

  1. Introduzione dell’art. 2635 bis cc (Istigazione alla corruzione tra privati)

L’art. 4 del D.Lgs. 38/2017 introduce l’art. 2635 bis cc, che punisce l’istigazione alla corruzione. Sotto il profilo attivo sarà quindi punito chi offre o promette denaro o altra utilità non dovuti ad un soggetto “intraneo” qualora l’offerta o la promessa non sia accettata (art. 2635 bis co.1). Sotto il profilo passivo sarà prevista la punibilità dell’ “intraneo” che solleciti una promessa o dazione di denaro o altra utilità, qualora la sollecitazione non sia accettata. (art. 2635 bis co.2).

Si riporta il testo del nuovo art. 2635 bis c.c. (istigazione alla corruzione tra privati)
“  Chiunque offre o promette denaro o altra utilità non dovuti agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, ai sindaci e ai liquidatori, di società o enti privati, nonché a chi svolge in essi un’attività lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive, affinché compia od ometta un atto in violazione degli obblighi inerenti al proprio ufficio o degli obblighi di fedeltà, soggiace, qualora l’offerta o la promessa non sia accettata, alla pena stabilita nel primo comma dell’articolo 2635, ridotta di un terzo.
  La pena di cui al primo comma si applica agli amministratori, ai direttori generali, ai dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, ai sindaci e ai liquidatori, di società o enti privati, nonché a chi svolge in essi attività lavorativa con l’esercizio di funzioni direttive, che sollecitano per sé o per altri, anche per interposta persona, una promessa o dazione di denaro o di altra utilità, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, qualora la sollecitazione non sia accettata.
  Si procede a querela della persona offesa”.

  1. Introduzione dell’art. 2635 ter c.c. (Pene accessorie)

L’art. 5 del D.Lgs. 38/2017 introduce l’art. 2635 ter c.c. che disciplina le pene accessorie da applicare in caso di condanna per il reato 2635, co. 1 c.c. (corruzione passiva dell’intraneo), nei confronti di chi sia già stato condannato per tale reato o per quello di cui all’art. 2635-bis, co. 2 c.c. (istigazione passiva alla corruzione). In questi casi si applicherà la pena dell’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese di cui all’art. 32-bis c.p.

Si riporta il testo del nuovo art. 2635 ter c.c. (Pene accessorie)
“La condanna per il reato di cui all’articolo 2635, primo comma, importa in ogni caso l’interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese di cui all’articolo 32-bis del codice penale nei confronti di chi sia già stato condannato per il medesimo reato o per quello di cui all’articolo 2635-bis, secondo comma”.

  1. Modifica al D.lgs. 231/01

L’art. 6 del D.Lgs. 38/2017 modifica, sotto il profilo sanzionatorio, la lettera s-bis dell’art. 25 ter (reati societari) del D.lgs.231/01, aumentando le sanzioni già previste per i casi di corruzione attiva ed introducendo la sanzione anche nei casi di istigazione attiva alla corruzione.
La nuova lettera s-bis prevede che in caso di corruzione attiva tra privati (soggetto “estraneo”)  ex art. 2635, comma 3, si applichi la sanzione pecuniaria da quattrocento a seicento quote e nei casi di istigazione attiva (art. 2635-bis, comma 1 c.c.), la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote. Si applicano, altresì, le sanzioni interdittive previste dall’art. 9, co 2 de  D.Lgs. n. 231/2001 .

Ricordiamo che le sanzioni interdittive previste dall’art. 9, co. 2  sono le seguenti:

a)  l’interdizione dall’esercizio dell’attività;
b)  la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito;
c)  il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
d)  l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;
e)  il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Si riporta il testo della lettera  s-bis, art. 25 ter del D.Lgs. 231/01
“per il delitto di corruzione tra privati, nei casi previsti dal terzo comma dell’articolo 2635 del codice civile, la sanzione pecuniaria da quattrocento a seicento quote e, nei casi di istigazione di cui al primo comma dell’articolo 2635-bis del codice civile, la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote. Si applicano altresì le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9, comma 2”

Cliccare sul seguente link per scaricare il testo aggiornato della norma:

D.lgs-231.01-aggiornato-ad-aprile-2017

È stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale ed è entrata in vigore il 4 novembre 2016,  la nuova legge 199/2016 in materia di contrasto ai  fenomeni  del  lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro  in  agricoltura  e  di  riallineamento retributivo nel settore agricolo.
Tale legge affronta il fenomeno criminale del caporalato riformulandone e aggiornandone la definizione, inasprendo le pene per gli sfruttatori ed estendendo la responsabilità e le sanzioni anche agli imprenditori che impiegano manodopera, anche facendo ricorso all’intermediazione dei caporali, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori e sottoponendo gli stessi a condizioni di sfruttamento.
L’art.603 bis del Codice Penale è stato sostituito con il seguente:
Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa  da  500  a  1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:
 1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al  lavoro  presso terzi in condizioni di sfruttamento,  approfittando  dello  stato  di bisogno dei lavoratori;
2)  utilizza,  assume  o  impiega  manodopera,   anche   mediante l’attività di intermediazione di cui al numero  1),  sottoponendo  i lavoratori a condizioni di sfruttamento  ed  approfittando  del  loro stato di bisogno.
Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia,  si  applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000  a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.
Ai fini del presente articolo, costituisce indice  di  sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:
1)  la  reiterata  corresponsione   di   retribuzioni   in   modo palesemente   difforme   dai   contratti   collettivi   nazionali   o territoriali   stipulati   dalle   organizzazioni   sindacali    più rappresentative  a  livello  nazionale,  o  comunque   sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale,  all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
3) la  sussistenza  di  violazioni  delle  norme  in  materia  di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
4) la sottoposizione del lavoratore a  condizioni  di  lavoro,  a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Costituiscono aggravante specifica  e  comportano  l’aumento  della pena da un terzo alla metà:
1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;
2) il fatto che uno o piu’ dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;
3) l’aver commesso il fatto esponendo i  lavoratori  sfruttati  a situazioni di grave pericolo,  avuto  riguardo  alle  caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro”.

La legge ha previsto inoltre che tale fattispecie delittuosa sia inserita nel novero dei reati previsti in materia di responsabilità amministrativa degli enti ex D.lgs. 231/01,  all’articolo 25-quinquies, comma 1, lettera a), tra i delitti contro la personalità individuale.
Tale illecito dell’ente sarà quindi punibile con la sanzione pecuniaria da 400 a 1000 quote e con le sanzioni interdittive previste dell’art. 9 co. 2 del D.lgs.231/01 per una durata non inferiore ad un anno.
Ricordiamo che le sanzioni interdittive previste dall’art. 9 co. 2 del D.lgs.231/01 sono:
a) l’interdizione dall’esercizio dell’attività;
b) la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito;
c) il divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
d) l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;
e) il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Tra le altre novità introdotte, interessante è quanto previsto della presente legge all’art. 3, ai sensi del quale “…qualora ricorrano i presupposti indicati nel  comma  1 dell’articolo 321 del codice di procedura penale, (quando vi è il pericolo che la libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso ovvero agevolare la commissione di altri reati”) il giudice dispone, in luogo del sequestro, il controllo giudiziario dell’azienda  presso cui e’ stato commesso il reato, qualora l’interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative  sui  livelli occupazionali o  compromettere  il  valore  economico  del  complesso aziendale…. L’amministratore  giudiziario  affianca  l’imprenditore   nella gestione dell’azienda ed  autorizza  lo  svolgimento  degli  atti  di amministrazione utili all’impresa,  riferendo  al  giudice  ogni  tre mesi,  e  comunque  ogni  qualvolta  emergano   irregolarità  circa l’andamento dell’attività  aziendale”

La legge ha inoltre introdotto:

  • un’attenuante in caso di collaborazione con le autorità;
  • l’arresto obbligatorio in flagranza di reato;
  • il rafforzamento dell’istituto della confisca;
  • l’adozione di misure cautelari relative all’azienda agricola in cui è commesso il reato;
  • l’estensione alle vittime del caporalato delle provvidenze del Fondo antitratta;
  • il potenziamento della Rete del lavoro agricolo di qualità, in funzione di strumento di controllo e prevenzione del lavoro nero in agricoltura;
  • il graduale riallineamento delle retribuzioni nel settore agricolo.

Cliccare qui per il testo completo della legge legge-29-ottobre-2016-n-199, tratta dal sito della Gazzetta Ufficiale.

 

La Corte di Cassazione con la sentenza n.12653/2016 si è nuovamente espressa riguardo alla responsabilità amministrativa degli enti prevista dal D.lgs. 231/01.
Il caso riguarda la condanna di due società per l’illecito amministrativo dipendente dal reato ex art. 316 bis c.p. commesso  dall’Amministratore delle stesse in relazione a dei finanziamenti concessi dalla Regione per la realizzazione di un’opera  di interesse pubblico. I fondi ricevuti sono invece stati utilizzati dall’Amministratore per scopi diversi, ossia per l’acquisto di un compendio immobiliare.

La Corte ha ritenuto esistente la responsabilità amministrativa delle due società sia per quanto riguarda l’elemento soggettivo che oggettivo sottolineando che “l’analisi compiuta dai Giudici di merito risulti pienamente rispondente al dato normativo, essendo stato posto in luce che l’azione illecita dell’organo apicale era stata funzionale all’interesse dei due enti, che erano stati in tal modo dotati di liquidità di cui avevano potuto disporre secondo la politica gestionale facente capo all’amministratore, e si era altresì risolta in un concreto vantaggio, soprattutto” per una delle aziende, “divenuta titolare di un cospicuo compendio immobiliare, di cui in precedenza era sprovvista”. Società che infatti prima del ricevimento di tali somme risultavano inattive.

È stato invece accolto il ricorso delle due società in merito all’art. 19 del D.Lgs. 231/01. Tale articolo prevede una duplice clausola di salvaguardia: nei confronti dell’ente è sempre disposta la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo per la parte che può essere restituita al danneggiato e fatti salvi i diritti acquisiti dai terzi in buona fede.
La Corte  ritiene a tal proposito che  “la duplice clausola contenuta nel primo comma relativa alla detrazione di ciò che può essere restituito e alla salvezza dei diritti dei terzi, valga anche per la confisca per equivalente”  e l’art. 19 D.Lgs. 231 del 2001, letto in relazione all’art. 9 D.Lgs. 231, “introduce una vera e propria sanzione principale a carico degli enti che risultino responsabili, la quale ha la funzione di ripristinare l’equilibrio economico turbato dal reato”.
La sentenza prosegue precisando che l’assunto dei ricorrenti è fondato in quanto “la confisca per equivalente è parimenti obbligatoria e ha la stessa funzione di quella contemplata al primo comma, fermo restando che la stessa non può risolversi in un pregiudizio per i terzi in buona fede. Ma in concreto deve rilevarsi che la doppia clausola di salvaguardia opera diversamente: quanto alla possibilità di disporre la restituzione al danneggiato, deve aversi riguardo non tanto ad una generica garanzia patrimoniale gravante sull’ente a vantaggio di un danneggiato, ma alla possibilità di distaccare concretamente una porzione del patrimonio, specificamente individuata, in quanto spettante come tale al danneggiato, che vi abbia dunque diritto, secondo una valutazione demandata al giudice penale competente; la salvezza dei diritti dei terzi di buona fede prescinde invece dalla qualità dei terzi, cioè dalla loro veste di danneggiati, e implica un riferimento al diritto di tali soggetti su un bene specificamente individuato, in quanto prevalente sull’interesse dello Stato alla acquisizione del bene attraverso la confisca”.

Non è invece stato ritenuto fondato dalla Corte il motivo secondo cui, per determinare il quantum del profitto da confiscare, si sarebbero dovute considerare in detrazione anche le somme corrispondenti alle polizze fideiussorie e le parti di debito coperte da garanzie ipotecarie, nè l’assunto che i diritti dei terzi acquistati in buona fede sarebbero identificabili nella garanzia ipotecaria volontariamente prestata in favore della Regione dal rappresentante legale dell’Ente su beni immobili dell’Ente medesimo.
Per la Cassazione infatti “ non può dirsi che il soggetto danneggiato, cioè la Regione erogante, abbia diritto alla restituzione di un bene specificamente individuato, dovendosi invece ravvisare il diritto dell’Ente alla restituzione della somma distratta e al risarcimento del relativo danno. In tale prospettiva non può attribuirsi rilievo neppure alla prestazione di garanzie fideiussorie da parte di terzi, giacchè queste ultime non ineriscono ad una porzione di patrimonio dell’ente specificamente individuata, da restituire al danneggiato. Esse potranno concorrere, ove escusse, al soddisfacimento delle pretese risarcitorie della Regione erogante, ma non possono essere considerate in detrazione in sede di computo del profitto e del relativo valore soggetto a confisca. Quanto alle garanzie ipotecarie, se per un verso potrà porsi al momento debito il problema di stabilire la prevalenza del diritto del creditore ipotecario, nondimeno è d’uopo osservare come attualmente la garanzia non sia stata in concreto, per quanto consta, esecutivamente escussa e come dunque il bene immobile ipotecato rientri nel patrimonio dell’ente responsabile, risultando per ciò stesso assoggettabile a confisca.”
La Corte ha inoltre affermato che per il computo del valore cui commisurare la confisca per equivalente per le due diverse società, la stessa “non potrà oltrepassare per ciascun ente l’entità dell’importo a ciascuno di essi riferibile”. È stato infatti rilevato che “nel caso di specie è stata formulata a carico di ciascun ente una distinta contestazione, a fronte delle autonome erogazioni effettuate in favore dell’uno e dell’altro. Ciascun ente ha dunque conseguito un corrispondente profitto, cui va specificamente commisurata la confisca. Non varrebbe in senso opposto il richiamo al principio solidaristico che nel caso di illecito plurisoggettivo implica l’imputazione dell’intera azione e dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente: non ricorre infatti un concorso tra i due enti, che rispondono autonomamente della condotta del S., che ricopriva in entrambe le società posizione apicale determinante”.
Inoltre “il valore dei beni da sottoporre a vincolo deve essere adeguato e proporzionato al prezzo o al profitto del reato e il giudice, nel compiere tale verifica, deve fare riferimento alle valutazioni di mercato degli stessi.”

Merita infine richiamare anche  quanto affermato dalla Corte relativamente alla responsabilità dell’imputato per il reato di malversazione ai danni dello Stato.
Per la Corte tale reato “ha natura istantanea e si consuma nel momento in cui sovvenzioni, finanziamenti o contributi pubblici vengono distratti dalla destinazione per cui erano stati erogati” specificando nel seguito  che “pur non richiedendosi la destinazione delle medesime banconote, occorre comunque che il valore erogato sia concretamente destinato dal soggetto beneficiario alla finalità prevista, la sola che avrebbe potuto giustificare l’erogazione”.
L’imputato aveva presentato ricorso sostenendo di non aver avuto l’intenzione di sottrarre le somme erogate allo scopo prefissato, avendo in tale ottica prestato garanzie, offerto ipoteca e spontaneamente restituito parte delle somme. L’imputato asseriva inoltre che il mancato raggiungimento della finalità per cui erano state erogate le somme era stato reso impossibile a causa di ostacoli burocratici.
La Corte ha rigettato questo motivo affermando che per tale reato “il dolo generico si risolve nella consapevole volontà dell’agente di conferire alla somma erogata una destinazione diversa” e che nel caso in esame l’amministratore aveva preordinato la distrazione delle somme mesi prima della scadenza del termine per completare l’opera, avendo dato incarico  al proprio legale di acquistare all’asta un compendio immobiliare.
A nulla inoltre rilevano le difese dell’imputato circa l’impossibilità di completare l’opera a causa di ostacoli burocratici inerenti al rilascio dei titoli abitativi. La Corte infatti ha affermato: “ciò che conta è la verifica della puntuale destinazione nel momento in cui la somma avrebbe dovuto trovare riscontro nell’opera da realizzare o nella finalità da soddisfare: da tale rilievo non discende che debba aversi riguardo alle ragioni della mancata realizzazione dell’opera ma solo che in quel momento debba valutarsi l’effettività della destinazione dell’erogazione” e ancora più chiaramente nel seguito “ l’opera implicava la disponibilità di quei titoli, in assenza dei quali non vi sarebbe stata ragione di utilizzare per intanto le somme erogate per scopi diversi..”.
Nemmeno l’argomentazione riguardante la prestazione di garanzie è stata ritenuta fondata dalla Corte che ha invece affermato: “ la diversa destinazione data alle somme … non possa ritenersi compensata dalle garanzie fideiussorie e ipotecarie offerte e dalla successiva parziale restituzione della somma: non viene infatti in gioco la semplice possibilità che prima o poi la somma sia per intero restituita, ma la verifica del soddisfacimento del pubblico interesse sotteso alla concreta destinazione dell’erogazione.”

In attesa della pubblicazione del testo della decisione, riportiamo quanto divulgato dagli organi di informazione in merito alla sentenza emessa ieri, 31/03/2016, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sul reato di “falso in bilancio valutativo”.
La Legge n. 69/2015 ha eliminato dal testo dell’art. 2621 del Codice Civile, l’inciso riguardante l’esposizione non veritiera o l’omissione di fatti materiali “oggetto di valutazioni”.
Tale modifica ha creato problemi interpretativi in merito alla rilevanza del “falso in bilancio valutativo” ai fini della configurabilità del delitto di “False comunicazioni sociali”.
Dall’emanazione della Legge n. 69/2015 sono state pronunciate infatti sentenze contrastanti che hanno reso necessario il ricorso alle Sezioni Unite.
Ieri pomeriggio il Collegio si è pronunciato affermativamente e ha diffuso la seguente massima provvisoria: “Il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo all’esposizione o all’omissione di fatti oggetto di “valutazione”, sussiste se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente si discosti da tali criteri consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo a indurre in errore i destinatari delle comunicazioni».
Vi è quindi “continuità normativa e completa sovrapponibilità tra il testo anteriore e quello successivo alla riforma” come sostenuto anche dal Rappresentante della Procura Generale della Cassazione ed il “falso valutativo” rimane delitto ed è punibile ogni volta che un’impresa si discosti consapevolmente e senza darne adeguata giustificazione dai criteri di valutazione fissati dalle norme civilistiche e dalle prassi contabili generalmente accettate, in modo da indurre  in errore i destinatari delle comunicazioni.

 

Con la sentenza del 21 gennaio 2016, nr. 2544,  la Cassazione ribadisce la responsabilità della società e dei suoi dirigenti per l’omessa adozione e l’efficace attuazione prima della commissione del fatto, di un modello di organizzazione e di gestione idoneo a prevenire i reati della specie di quello verificatosi.
In tale sentenza la Cassazione infatti ha confermato le condanne inflitte in primo e secondo grado ad una società edile, al suo amministratore e al direttore tecnico per la violazione delle norme antinfortunistiche che hanno causato la morte di un lavoratore della società. Violazione che la Corte definisce “frutto di una specifica politica aziendale, volta alla massimizzazione del profitto con un contenimento dei costi in materia di sicurezza, a scapito della tutela della vita e della salute dei lavoratori” ritenendo presenti tutti i criteri di imputazione oggettiva e soggettiva per affermare la responsabilità della società ex D.lgs. 231/01.

Sotto il profilo dei criteri di imputazione oggettiva la sentenza afferma che nei reati colposi di evento i requisiti dell’interesse e vantaggio previsti dall’art. 5 del D.Lgs. 231/01, devono essere riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico, essendo sicuramente escluso che si possa parlare di interesse o di procurato vantaggio in tutti i casi in cui avvengano lesioni o la morte di un dipendente della società a causa della violazione delle norme antifortunistiche.
In questi casi infatti l’ente trae un vantaggio “nel risparmio di costi o di tempo che lo stesso avrebbe dovuto sostenere per adeguarsi alla normativa prevenzionistica, la cui violazione ha determinato l’infortunio sul lavoro.”
La sentenza ribadisce inoltre che i due concetti di interesse e vantaggio sono giuridicamente diversi in quanto l’interesse si riferisce ad una valutazione antecedente alla commissione del reato presupposto, mentre il vantaggio attiene ad una valutazione ex post circa l’effettivo conseguimento dello stesso a seguito della consumazione del reato. Tali concetti sono alternativi ben potendo verificarsi infatti che il reato sia commesso nell’interesse dell’ente ma non procurargli alcun vantaggio.
Nei reati colposi di evento l’interesse ricorre quando “la persona fisica, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha consapevolmente agito allo scopo di conseguire un’utilità per la persona giuridica; ciò accade, ad esempio, quando la mancata adozione delle cautele antinfortunistiche risulti essere l’esito (non di una semplice sottovalutazione dei rischi o di una cattiva considerazione delle misure di prevenzione necessarie, ma) di una scelta finalisticamente orientata a risparmiare sui costi d’impresa”.
Il vantaggio invece ricorre quando “la persona fisica, agendo per conto dell’ente, pur non volendo il verificarsi dell’evento morte o lesioni del lavoratore, ha violato sistematicamente le norme prevenzionistiche e, dunque, ha realizzato una politica d’impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto”.
Nel caso affrontato dalla sentenza è stata accertata e provata “la protratta sistematica violazione della normativa prevenzionistica a vantaggio dell’ente, che aveva risparmiato i costi connessi all’acquisto di un’attrezzatura di lavoro moderna, efficiente e sicura … ovvero i costi delle modifiche tecniche necessarie a rendere quel macchinario sicuro per i lavoratori; nonché la circostanza che la società aveva risparmiato i costi .. connessi ad un’adeguata attività di formazione ed informazione dei lavoratori”.

Sotto il profilo dei criteri di imputazione soggettiva la sentenza afferma che entrambi i soggetti rivestivano al momento del fatto ruoli apicali all’interno della società essendo rispettivamente amministratore unico e dirigente tecnico della stessa. Qualifiche che rientrano tra quelle previste dall’art. 5, co. 1 lett. a) del D.Lgs. 231/01.
La società quindi per andare esente da responsabilità  nel caso di reati di omicidio colposo o lesioni colpose commesse da suoi organi apicali con violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro avrebbe dovuto dimostrare “ l’adozione ed efficace attuazione di modelli organizzativi (per i quali soccorre il disposto dell’art. 30 del d. lgs. n. 81/2008) e l’attribuzione ad un organismo autonomo del potere di vigilanza sul funzionamento, l’aggiornamento e l’osservanza dei modelli adottati” come previsto dall’art. 6 del D.lgs. 231/01.
Modello che la società non aveva adottato e che ha portato alla condanna alla stessa di una sanzione amministrativa pecuniaria di €80.000.

Ancora una volta la Suprema Corte, con la sentenza n. 31003 del 16.07.2015, ha ravvisato la responsabilità dell’ente ai sensi dell’art. 25 septies D.Lgs. 231/01 in caso di infortunio di un lavoratore in azienda.
La vicenda processuale aveva ad oggetto le lesioni gravi subite da un lavoratore mentre con un collega era intento ad effettuare un’operazione di scarico di una pesante bobina di carta.
Il Tribunale aveva ritenuto che il datore di lavoro fosse responsabile per avere lo stesso consentito che tale operazione avvenisse senza aver installato sul macchinario che comandava la discesa della bobina, alcun dispositivo di sicurezza.
Dispositivo installato in seguito all’infortunio dagli organi di vigilanza consistente in un sistema di doppi comandi tale da consentire lo sgancio della bobina solo con l’esplicito consenso di entrambi i lavoratori, quello addetto allo sganciamento dei mandrini che fissavano l’albero della bobina al macchinario e del lavoratore addetto al comando del macchinario stesso.
Era stata inoltre ravvisata la responsabilità dell’ente in quanto lo stesso aveva tratto un vantaggio dalla predisposta modalità di organizzazione del lavoro.
Sentenza poi confermata anche in grado di appello.
La Corte di Cassazione chiamata a decidere sul ricorso degli imputati ha affermato ancora una volta il principio secondo cui, in caso di lesioni colpose ex art. 25 septies l’interesse e/o vantaggio,  su cui si fonda la responsabilità 231, “vanno letti, nella prospettiva patrimoniale dell’ente, come risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dello strumentario di sicurezza ovvero come incremento economico conseguente all’aumento della produttività non ostacolata dal pedissequo rispetto della normativa prevenzionale” rinviando alla nota sentenza delle Sezioni Unite del 24 aprile 2014, riguardante il caso ThyssenKrupp.
Nel reati colposi, prosegue la Corte, “l’interesse/ vantaggio si ricollegano al risparmio nelle spese che l’ente dovrebbe sostenere per l’adozione delle misure precauzionali ovvero nell’agevolazione sub specie , dell’aumento di produttività che ne può derivare sempre per l’ente dallo sveltimento dell’attività lavorativa “favorita” dalla mancata osservanza della normativa cautelare, il cui rispetto, invece, tale attività avrebbe “rallentato” quantomeno nei tempi.”
Tale sentenza ribadisce nuovamente il concetto che i requisiti dell’interesse e vantaggio ben si possono conciliare anche con i reati colposi previsti dal Decreto Legislativo 231/01 e che gli stessi si realizzano tutte le volte in cui le la morte o le lesioni personali colpose siano determinate da scelte rientranti oggettivamente nella sfera di interesse dell’ente oppure se le stesse abbiano comportato almeno un risparmio di spesa o un aumento di produttività per l’ente stesso.

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È stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.122 del 28.5.2015 la Legge n. 68/2015 riguardante “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”.
Tale intervento normativo inserisce nel Codice Penale un nuovo Titolo, VI-bis, dedicato ai delitti contro l’ambiente all’interno del quale sono stati previsti cinque nuovi reati:

  • 452-bis c.p. Inquinamento ambientale. Tale reato punisce chi abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativo e misurabile: delle acque o dell’aria, di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo nonchè di un ecosistema, della biodiversità anche agraria, della flora o della fauna. Tale reato prevede la reclusione da 2 a 6 anni e la multa da euro 10.000 a euro 100.000 e la pena è aumentata quando l’inquinamento è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette.
  • 452-quater c.p. Disastro ambientale. Tale reato si ravvisa se si provoca l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema o se l’eliminazione delle conseguenze nocive risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali o se si offende la pubblica incolumità Tale reato prevede la reclusione da 5 a 15 anni e la pena è aumentata quando il disastro è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette
  • 452-sexies c.p. Traffico e  abbandono  di  materiale  ad  alta radioattività. Tale reato punisce chi abusivamente cede, acquista, riceve, trasporta, importa, esporta, procura ad altri, detiene, trasferisce, abbandona o si disfa illegittimamente di materiale ad alta radioattività. Tale reato prevede la reclusione da 2 a 6 anni e la multa da euro 10.000 a euro 50.000 e la pena è aumentata se vi è pericolo di deterioramento o compromissione di acque, aria, suolo, sottosuolo o di un ecosistema nonché se dal fatto deriva pericolo per la vita o per l’incolumità delle persone.
  • 452-septies c.p. Impedimento del controllo. Tale reato punisce chi, negando l’accesso, predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce, intralcia o elude l’attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza e igiene del  lavoro,  ovvero  ne compromette gli esiti. Tale reato prevede la reclusione da 6 mesi a 3 anni.
  • 452-terdecies c.p. Omessa bonifica. Tale reato si ravvisa quando chi essendovi obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un’autorità pubblica, non provvede alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi. Tale reato prevede la reclusione da 1 a 4 anni e la multa da euro 20.000 a euro 80.000.

La legge prevede inoltre il raddoppiamento dei termini per la prescrizione e specifiche aggravanti: una per mafia, nel caso in cui i delitti contro l’ambiente vengano commessi nel contesto dell’attività criminale organizzata e l’altra ambientale, che si realizza quando reato è commesso allo scopo di eseguire uno o più tra i delitti contro l’ambiente.
È altresì prevista la confisca, anche per equivalente, del prodotto o profitto del reato. Tale misura è esclusa quando l’imputato ha efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e, ove necessario, alle attività di bonifica e di ripristino dello stato dei luoghi.
La legge ha previsto ipotesi deflattive in caso di delitti colposi, nelle ipotesi contravvenzionali che non hanno provocato danno o pericolo ed in caso di ravvedimento operoso che comporta una diminuzione della pena dalla metà ai due terzi nei confronti di chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori o provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi.
Le pene vengono diminuite da un terzo alla metà anche nei confronti di chi aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto, nell’individuazione degli autori del reato o nella sottrazione di  risorse rilevanti per la commissione dei delitti.

La legge 68/2015 modifica inoltre l’art 25-undecies del D.Lgs. 231/01, aggiungendo tra i reati presupposto:

  • il delitto di inquinamento ambientale (art. 425-bis c.p.) prevedendo per tale violazione la sanzione pecuniaria da duecentocinquanta a seicento quote;
  • il delitto di disastro ambientale (art. 452-quater c.p.) prevedendo per tale violazione la sanzione pecuniaria da quattrocento a ottocento quote;
  • i delitti colposi contro l’ambiente (art.452-quinquies c.p.), prevedendo per tale violazione la sanzione pecuniaria da duecento a cinquecento quote;
  • per i delitti associativi aggravati ai sensi dell’articolo 452-octies, la sanzione pecuniaria da trecento a mille quote;
  • il delitto di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività (art. 452-sexies c.p.) prevedendo per tale violazione la sanzione pecuniaria da duecentocinquanta a seicento quote.

La legge prevede inoltre che per i reati di inquinamento ambientale e di disastro ambientale si  applichino, oltre alle sanzioni pecuniarie ivi previste, le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9 del D.Lgs. 231/01, stabilendo una durata massima di 1 anno in relazione al delitto di inquinamento.
Ricordiamo che le sentenze interdittive previste dal decreto 231 sono:

  1. l’interdizione dall’esercizio dell’attività;
  2. la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito;
  3. il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
  4. l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;
  5. il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

La legge 68/2015 non richiama nei confronti degli enti la possibilità del ravvedimento operoso prevista all’art. 452 decies c.p. pertanto sarà applicabile l’attenuante dell’art. 12 del D.Lgs.231/01 che prevede che la sanzione pecuniaria venga ridotta da un terzo alla metà se prima dell’apertura del dibattimento l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero  si è efficacemente adoperato in tal senso.

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La sentenza emessa dalle Sezioni Unite della Cassazione Penale nel caso ThyssenKrupp, depositata il 18 settembre 2014, con le sue 214 pagine, rappresenta indubbiamente la pronuncia di maggior importanza nel panorama giurisprudenziale recente, sia per la vastità ed eterogeneità degli argomenti affrontati, sia per la fondamentale importanza degli stessi.

La sentenza, con la suddivisione indicizzata in capitoli e con la sua particolare chiarezza espositiva, si presenta come un manuale prezioso per l’avvocato penalista.

L’interesse per tale pronuncia va ben al di là dell’ormai nota questione concernente la demarcazione tra “colpa cosciente” e “dolo eventuale”, che costituisce soltanto una delle molte questioni  su cui le Sezioni Unite si concentrano.

Di enorme rilievo sono, ad esempio, i capitoli della motivazione che si occupano della prova del nesso di causalità nelle condotte colpose omissive.
Sul punto la nuova sentenza si offre come nuovo pilastro di riferimento che viene a sostituirsi alla famosa e sinora intoccata Sentenza Franzese del 2002, con risvolti non trascurabili nell’affrontare processi per fattispecie colpose di qualsivoglia genere, dalla sicurezza sul lavoro, alla responsabilità medica.
Le Sezioni Unite dichiarano espressamente, con riferimento alla pronuncia Franzese, che da essa “non di rado si traggono principi ed enunciazioni opposte” e che “ad oltre dieci anni da tale importante e condivisa pronunzia, si pone, in conseguenza, la necessità di una breve messa a fuoco ed attualizzazione di alcune questioni di principio, anche alla luce della recente esperienza giuridica” (pag. 91 e ss.).
L’ottica argomentativa, enunciata a pag. 98, è quella di rendere “praticabile il giudizio di imputazione dell’evento, allontanando la prospettiva di indiscriminata impunità anche per condotte omissive gravemente trascurate e dannose” mediante il concetto di “corroborazione dell’ipotesi”.

Importanza e chiarezza degne di nota traspaiono anche dalle argomentazioni concernenti Le posizioni di garanzia” in materia di sicurezza sul lavoro.
Le Sezioni Unite affermano la necessità di “arginare l’eccessiva forza espansiva dell’imputazione del fatto determinata dal condizionalismo”, di “tentare di limitare, separare le sfere di responsabilità, in modo che il diritto penale possa realizzare la sua vocazione ad esprimere un ben ponderato giudizio sulla paternità dell’evento illecito” ed ancora di “tentare di governare tali intricati scenari, nella già indicata prospettiva di ricercare responsabilità e non capri espiatori”.
Di rilievo anche l’affermata demarcazione tra soggetti garanti che “hanno un’originaria sfera di responsabilità che non hanno bisogno di deleghe per essere operante, ma deriva direttamente dall’investitura o dal fatto” e soggetti delegati ex art. 16 D.Lgs. 81/08.

Da ultimo, per successione delle argomentazioni, ma non per importanza, la questione delleResponsabilità da reato dell’ente”, affrontata sotto vari profili, dalla natura di detta responsabilità quale tertium genus con “evidenti ragioni di contiguità con l’ordinamento penale“, ai criteri di imputazione dell’ente, con particolare riguardo all’interesse e vantaggio nei reati colposi, concetti che “vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico”.
Segue, infine, una presa di posizione in merito al profitto confiscabile, individuabile anche nel “risparmio di spesa”.

Cliccare qui per il testo della Cass. Pen. S.U. 38343_2014, tratto dal sito www.cortedicassazione.it

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Con la sentenza n. 37712/2014 della Cassazione Penale, Sezione II, depositata il 15 settembre 2014, la Suprema Corte ribadisce alcuni importanti principi in materia di presupposti per l’applicazione all’ente di una misura cautelare interdittiva ex D.Lgs. 231/01 (nella specie il “divieto di contrattare con la P.A. per un anno”).

Quanto al requisito di cui all’art. 13 co. 1 lett. a) D.Lgs. 231/01, che prevede quale condizione di applicabilità delle sanzioni interdittive e, quindi, anche della loro applicazione in via cautelare, il fatto che l’ente abbia tratto “un profitto di rilevante entità”, la Corte ha ribadito il principio secondo cui “la nozione di profitto di rilevante entità ha un contenuto più ampio di quello di profitto inteso come utile netto, in quanto in tale concetto rientrano anche vantaggi non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell’illecito”.
La Suprema Corte ricorda anche il pacifico principio di alternatività di tale condizione con quella di cui alla lett. b)  del medesimo art. 13 concernente la “reiterazione degli illeciti”.

Meritevole di maggior attenzione è quanto sostenuto nella sentenza relativamente alla valutazione di permanenza del “periculum” di commissione di nuovi illeciti (condizione ex art. 45 co. 1 D.Lgs. 231/01 per l’applicazione della misura) in caso di estromissione e sostituzione degli amministratori.
Già nel 2006, con sentenza Cass Pen VI n. 32626/2006, la Suprema Corte aveva affermato che “la sostituzione o l’estromissione degli amministratori coinvolti possa portare ad escludere la sussistenza del periculum richiesto dall’art. 45 cit., ma a condizione che ciò rappresenti il sintomo che l’ente inizi a muoversi verso un diverso tipo di organizzazione, in cui sia presente l’obiettivo di evitare il rischio reato“.
La nuova sentenza n. 37712/2014 applica tale principio nel valutare il caso posto alla sua attenzione, offrendo importanti spunti di riflessione.

Secondo la Suprema Corte “Per quanto riguarda il cambio di amministratore (non è più l’indagato…)… si sottolinea come tale cambio sia strumentale alla presentazione dell’appello data la stretta “contiguità temporale tra i due eventi” e per il fatto che nel verbale di assemblea non sono spiegate le ragioni di tale sostituzione nè vengono indicate le competenze e professionalità del nuovo amministratore appena trentenne. Il Tribunale, inoltre, osserva che nella denominazione sociale permane il riferimento a …. e che non vi è alcuna prova che questi sia uscito dal gruppo e non abbia più alcuna influenza su di esso”.

Con tale sentenza vengono pertanto offerte, a contrariis, alcune indicazioni essenziali per l’ente che voglia ottenere il riconoscimento di esclusione del “periculum” mediante un cambio organizzativo nel vertice:

– prestare attenzione al momento di tale cambiamento, che può costituire sintomo di strumentalità se fatto contestualmente alla presentazione dell’appello;

– motivare in seno al verbale di assemblea le ragioni del cambiamento;

– scegliere con attenzione il nuovo vertice, in considerazione delle competenze, professionalità ed esperienza del soggetto nominato.

Sicuramente più complicato ed, a nostro parere eccessivo, è quanto rilevato in relazione al permanere del riferimento al soggetto indagato “nella denominazione sociale” ed alla carenza di prova del fatto che egli non abbia più alcuna influenza.
Riteniamo che richiedere, per la valutazione di esclusione del “periculum”, persino un cambio di denominazione sociale ed una difficilissima prova negativa di assenza di influenza del soggetto, porti a vanificare in concreto il lodevole comportamento dell’ente che intenda effettivamente dare prova di un cambio di rotta verso la legalità e prevenzione da reato.

Un ultimo aspetto di interesse della pronuncia, che lascia non poche perplessità, riguarda l’utilizzabilità in seno al procedimento 231 dello strumento di indagine e prova costituito dalle “intercettazioni telefoniche”.
Molti i dubbi sollevati in dottrina sull’utilizzabilità probatoria di tale strumento per la valutazione di responsabilità dell’ente, alla luce dei limiti di ammissibilità di cui all’art. 266 c.p.p. e dei limiti espressi dall’art. 270 c.p.p. per l’utilizzabilità delle intercettazione “in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti”.
Di fatto, abbiamo spesso assistito all’utilizzazione processuale delle intercettazioni, ove consentite alla luce del tipo di reato presupposto, in relazione alla prova della commissione del reato o per la valutazione degli indizi di commissione dello stesso a fini cautelari, anche nei confronti dell’ente chiamato a rispondere ex D.Lgs. 231/01 (vedasi ad es. Trib. Gorizia – GIP -ordinanza 22.7.2013).
La sentenza in commento va oltre, dando espressamente atto dell’utilizzo delle intercettazioni telefoniche non soltanto in relazione alle valutazioni sulla commissione o meno dei reati in ordine ai quali sono state disposte, ma altresì per supportare il giudizio di sussistenza  di condizioni per l’applicazione di misure cautelari proprie e peculiari del procedimento 231: “intercettazioni telefoniche che confermano la sussistenza del concreto pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede… solo grazie alle intercettazioni è stato possibile scoprire l’inganno posto in essere dalla società ricorrente e iniziare così l’attuale procedimento”.

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