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È stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n.122 del 28.5.2015 la Legge n. 68/2015 riguardante “Disposizioni in materia di delitti contro l’ambiente”.
Tale intervento normativo inserisce nel Codice Penale un nuovo Titolo, VI-bis, dedicato ai delitti contro l’ambiente all’interno del quale sono stati previsti cinque nuovi reati:

  • 452-bis c.p. Inquinamento ambientale. Tale reato punisce chi abusivamente cagiona una compromissione o un deterioramento significativo e misurabile: delle acque o dell’aria, di porzioni estese o significative del suolo o del sottosuolo nonchè di un ecosistema, della biodiversità anche agraria, della flora o della fauna. Tale reato prevede la reclusione da 2 a 6 anni e la multa da euro 10.000 a euro 100.000 e la pena è aumentata quando l’inquinamento è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette.
  • 452-quater c.p. Disastro ambientale. Tale reato si ravvisa se si provoca l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema o se l’eliminazione delle conseguenze nocive risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali o se si offende la pubblica incolumità Tale reato prevede la reclusione da 5 a 15 anni e la pena è aumentata quando il disastro è prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico, artistico, architettonico o archeologico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette
  • 452-sexies c.p. Traffico e  abbandono  di  materiale  ad  alta radioattività. Tale reato punisce chi abusivamente cede, acquista, riceve, trasporta, importa, esporta, procura ad altri, detiene, trasferisce, abbandona o si disfa illegittimamente di materiale ad alta radioattività. Tale reato prevede la reclusione da 2 a 6 anni e la multa da euro 10.000 a euro 50.000 e la pena è aumentata se vi è pericolo di deterioramento o compromissione di acque, aria, suolo, sottosuolo o di un ecosistema nonché se dal fatto deriva pericolo per la vita o per l’incolumità delle persone.
  • 452-septies c.p. Impedimento del controllo. Tale reato punisce chi, negando l’accesso, predisponendo ostacoli o mutando artificiosamente lo stato dei luoghi, impedisce, intralcia o elude l’attività di vigilanza e controllo ambientali e di sicurezza e igiene del  lavoro,  ovvero  ne compromette gli esiti. Tale reato prevede la reclusione da 6 mesi a 3 anni.
  • 452-terdecies c.p. Omessa bonifica. Tale reato si ravvisa quando chi essendovi obbligato per legge, per ordine del giudice ovvero di un’autorità pubblica, non provvede alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi. Tale reato prevede la reclusione da 1 a 4 anni e la multa da euro 20.000 a euro 80.000.

La legge prevede inoltre il raddoppiamento dei termini per la prescrizione e specifiche aggravanti: una per mafia, nel caso in cui i delitti contro l’ambiente vengano commessi nel contesto dell’attività criminale organizzata e l’altra ambientale, che si realizza quando reato è commesso allo scopo di eseguire uno o più tra i delitti contro l’ambiente.
È altresì prevista la confisca, anche per equivalente, del prodotto o profitto del reato. Tale misura è esclusa quando l’imputato ha efficacemente provveduto alla messa in sicurezza e, ove necessario, alle attività di bonifica e di ripristino dello stato dei luoghi.
La legge ha previsto ipotesi deflattive in caso di delitti colposi, nelle ipotesi contravvenzionali che non hanno provocato danno o pericolo ed in caso di ravvedimento operoso che comporta una diminuzione della pena dalla metà ai due terzi nei confronti di chi si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori o provvede concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi.
Le pene vengono diminuite da un terzo alla metà anche nei confronti di chi aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto, nell’individuazione degli autori del reato o nella sottrazione di  risorse rilevanti per la commissione dei delitti.

La legge 68/2015 modifica inoltre l’art 25-undecies del D.Lgs. 231/01, aggiungendo tra i reati presupposto:

  • il delitto di inquinamento ambientale (art. 425-bis c.p.) prevedendo per tale violazione la sanzione pecuniaria da duecentocinquanta a seicento quote;
  • il delitto di disastro ambientale (art. 452-quater c.p.) prevedendo per tale violazione la sanzione pecuniaria da quattrocento a ottocento quote;
  • i delitti colposi contro l’ambiente (art.452-quinquies c.p.), prevedendo per tale violazione la sanzione pecuniaria da duecento a cinquecento quote;
  • per i delitti associativi aggravati ai sensi dell’articolo 452-octies, la sanzione pecuniaria da trecento a mille quote;
  • il delitto di traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività (art. 452-sexies c.p.) prevedendo per tale violazione la sanzione pecuniaria da duecentocinquanta a seicento quote.

La legge prevede inoltre che per i reati di inquinamento ambientale e di disastro ambientale si  applichino, oltre alle sanzioni pecuniarie ivi previste, le sanzioni interdittive previste dall’articolo 9 del D.Lgs. 231/01, stabilendo una durata massima di 1 anno in relazione al delitto di inquinamento.
Ricordiamo che le sentenze interdittive previste dal decreto 231 sono:

  1. l’interdizione dall’esercizio dell’attività;
  2. la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito;
  3. il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio;
  4. l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi;
  5. il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

La legge 68/2015 non richiama nei confronti degli enti la possibilità del ravvedimento operoso prevista all’art. 452 decies c.p. pertanto sarà applicabile l’attenuante dell’art. 12 del D.Lgs.231/01 che prevede che la sanzione pecuniaria venga ridotta da un terzo alla metà se prima dell’apertura del dibattimento l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero  si è efficacemente adoperato in tal senso.

Studio Legale Tosello & Partners

La sentenza emessa dalle Sezioni Unite della Cassazione Penale nel caso ThyssenKrupp, depositata il 18 settembre 2014, con le sue 214 pagine, rappresenta indubbiamente la pronuncia di maggior importanza nel panorama giurisprudenziale recente, sia per la vastità ed eterogeneità degli argomenti affrontati, sia per la fondamentale importanza degli stessi.

La sentenza, con la suddivisione indicizzata in capitoli e con la sua particolare chiarezza espositiva, si presenta come un manuale prezioso per l’avvocato penalista.

L’interesse per tale pronuncia va ben al di là dell’ormai nota questione concernente la demarcazione tra “colpa cosciente” e “dolo eventuale”, che costituisce soltanto una delle molte questioni  su cui le Sezioni Unite si concentrano.

Di enorme rilievo sono, ad esempio, i capitoli della motivazione che si occupano della prova del nesso di causalità nelle condotte colpose omissive.
Sul punto la nuova sentenza si offre come nuovo pilastro di riferimento che viene a sostituirsi alla famosa e sinora intoccata Sentenza Franzese del 2002, con risvolti non trascurabili nell’affrontare processi per fattispecie colpose di qualsivoglia genere, dalla sicurezza sul lavoro, alla responsabilità medica.
Le Sezioni Unite dichiarano espressamente, con riferimento alla pronuncia Franzese, che da essa “non di rado si traggono principi ed enunciazioni opposte” e che “ad oltre dieci anni da tale importante e condivisa pronunzia, si pone, in conseguenza, la necessità di una breve messa a fuoco ed attualizzazione di alcune questioni di principio, anche alla luce della recente esperienza giuridica” (pag. 91 e ss.).
L’ottica argomentativa, enunciata a pag. 98, è quella di rendere “praticabile il giudizio di imputazione dell’evento, allontanando la prospettiva di indiscriminata impunità anche per condotte omissive gravemente trascurate e dannose” mediante il concetto di “corroborazione dell’ipotesi”.

Importanza e chiarezza degne di nota traspaiono anche dalle argomentazioni concernenti Le posizioni di garanzia” in materia di sicurezza sul lavoro.
Le Sezioni Unite affermano la necessità di “arginare l’eccessiva forza espansiva dell’imputazione del fatto determinata dal condizionalismo”, di “tentare di limitare, separare le sfere di responsabilità, in modo che il diritto penale possa realizzare la sua vocazione ad esprimere un ben ponderato giudizio sulla paternità dell’evento illecito” ed ancora di “tentare di governare tali intricati scenari, nella già indicata prospettiva di ricercare responsabilità e non capri espiatori”.
Di rilievo anche l’affermata demarcazione tra soggetti garanti che “hanno un’originaria sfera di responsabilità che non hanno bisogno di deleghe per essere operante, ma deriva direttamente dall’investitura o dal fatto” e soggetti delegati ex art. 16 D.Lgs. 81/08.

Da ultimo, per successione delle argomentazioni, ma non per importanza, la questione delleResponsabilità da reato dell’ente”, affrontata sotto vari profili, dalla natura di detta responsabilità quale tertium genus con “evidenti ragioni di contiguità con l’ordinamento penale“, ai criteri di imputazione dell’ente, con particolare riguardo all’interesse e vantaggio nei reati colposi, concetti che “vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico”.
Segue, infine, una presa di posizione in merito al profitto confiscabile, individuabile anche nel “risparmio di spesa”.

Cliccare qui per il testo della Cass. Pen. S.U. 38343_2014, tratto dal sito www.cortedicassazione.it

Studio Legale Associato Tosello & Partners

 

Con la sentenza n. 37712/2014 della Cassazione Penale, Sezione II, depositata il 15 settembre 2014, la Suprema Corte ribadisce alcuni importanti principi in materia di presupposti per l’applicazione all’ente di una misura cautelare interdittiva ex D.Lgs. 231/01 (nella specie il “divieto di contrattare con la P.A. per un anno”).

Quanto al requisito di cui all’art. 13 co. 1 lett. a) D.Lgs. 231/01, che prevede quale condizione di applicabilità delle sanzioni interdittive e, quindi, anche della loro applicazione in via cautelare, il fatto che l’ente abbia tratto “un profitto di rilevante entità”, la Corte ha ribadito il principio secondo cui “la nozione di profitto di rilevante entità ha un contenuto più ampio di quello di profitto inteso come utile netto, in quanto in tale concetto rientrano anche vantaggi non immediati, comunque conseguiti attraverso la realizzazione dell’illecito”.
La Suprema Corte ricorda anche il pacifico principio di alternatività di tale condizione con quella di cui alla lett. b)  del medesimo art. 13 concernente la “reiterazione degli illeciti”.

Meritevole di maggior attenzione è quanto sostenuto nella sentenza relativamente alla valutazione di permanenza del “periculum” di commissione di nuovi illeciti (condizione ex art. 45 co. 1 D.Lgs. 231/01 per l’applicazione della misura) in caso di estromissione e sostituzione degli amministratori.
Già nel 2006, con sentenza Cass Pen VI n. 32626/2006, la Suprema Corte aveva affermato che “la sostituzione o l’estromissione degli amministratori coinvolti possa portare ad escludere la sussistenza del periculum richiesto dall’art. 45 cit., ma a condizione che ciò rappresenti il sintomo che l’ente inizi a muoversi verso un diverso tipo di organizzazione, in cui sia presente l’obiettivo di evitare il rischio reato“.
La nuova sentenza n. 37712/2014 applica tale principio nel valutare il caso posto alla sua attenzione, offrendo importanti spunti di riflessione.

Secondo la Suprema Corte “Per quanto riguarda il cambio di amministratore (non è più l’indagato…)… si sottolinea come tale cambio sia strumentale alla presentazione dell’appello data la stretta “contiguità temporale tra i due eventi” e per il fatto che nel verbale di assemblea non sono spiegate le ragioni di tale sostituzione nè vengono indicate le competenze e professionalità del nuovo amministratore appena trentenne. Il Tribunale, inoltre, osserva che nella denominazione sociale permane il riferimento a …. e che non vi è alcuna prova che questi sia uscito dal gruppo e non abbia più alcuna influenza su di esso”.

Con tale sentenza vengono pertanto offerte, a contrariis, alcune indicazioni essenziali per l’ente che voglia ottenere il riconoscimento di esclusione del “periculum” mediante un cambio organizzativo nel vertice:

– prestare attenzione al momento di tale cambiamento, che può costituire sintomo di strumentalità se fatto contestualmente alla presentazione dell’appello;

– motivare in seno al verbale di assemblea le ragioni del cambiamento;

– scegliere con attenzione il nuovo vertice, in considerazione delle competenze, professionalità ed esperienza del soggetto nominato.

Sicuramente più complicato ed, a nostro parere eccessivo, è quanto rilevato in relazione al permanere del riferimento al soggetto indagato “nella denominazione sociale” ed alla carenza di prova del fatto che egli non abbia più alcuna influenza.
Riteniamo che richiedere, per la valutazione di esclusione del “periculum”, persino un cambio di denominazione sociale ed una difficilissima prova negativa di assenza di influenza del soggetto, porti a vanificare in concreto il lodevole comportamento dell’ente che intenda effettivamente dare prova di un cambio di rotta verso la legalità e prevenzione da reato.

Un ultimo aspetto di interesse della pronuncia, che lascia non poche perplessità, riguarda l’utilizzabilità in seno al procedimento 231 dello strumento di indagine e prova costituito dalle “intercettazioni telefoniche”.
Molti i dubbi sollevati in dottrina sull’utilizzabilità probatoria di tale strumento per la valutazione di responsabilità dell’ente, alla luce dei limiti di ammissibilità di cui all’art. 266 c.p.p. e dei limiti espressi dall’art. 270 c.p.p. per l’utilizzabilità delle intercettazione “in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti”.
Di fatto, abbiamo spesso assistito all’utilizzazione processuale delle intercettazioni, ove consentite alla luce del tipo di reato presupposto, in relazione alla prova della commissione del reato o per la valutazione degli indizi di commissione dello stesso a fini cautelari, anche nei confronti dell’ente chiamato a rispondere ex D.Lgs. 231/01 (vedasi ad es. Trib. Gorizia – GIP -ordinanza 22.7.2013).
La sentenza in commento va oltre, dando espressamente atto dell’utilizzo delle intercettazioni telefoniche non soltanto in relazione alle valutazioni sulla commissione o meno dei reati in ordine ai quali sono state disposte, ma altresì per supportare il giudizio di sussistenza  di condizioni per l’applicazione di misure cautelari proprie e peculiari del procedimento 231: “intercettazioni telefoniche che confermano la sussistenza del concreto pericolo che vengano commessi illeciti della stessa indole di quello per cui si procede… solo grazie alle intercettazioni è stato possibile scoprire l’inganno posto in essere dalla società ricorrente e iniziare così l’attuale procedimento”.

Studio Legale Associato Tosello & Partners

Dopo l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione Penale, che con sentenza n. 10561/2014 hanno dichiarato “irrazionale” l’assenza dei reati tributari dall’elenco dei reati presupposto della Responsabilità 231, è ora alla Camera un disegno di legge per l’introduzione nel D.Lgs. 231/01 di un art. 25-terdecies volto a colmare tale “irrazionale” lacuna.

Il DDL n. 2400, assegnato in data 4.9.2014 alla Commissione Giustizia, propone di introdurre tra i reati presupposto della Responsabilità 231 quelli sanzionati agli articoli:

– art. 2 co. 1, 3 e 8 D.Lgs. 74/2000

– art. 4 D.Lgs. 74/2000

– art. 5 co. 1 D.Lgs. 74/2000

– artt. 10, 10-bis e 10-ter D.Lgs. 74/2000

– art. 11 co. 1 e 2 D.Lgs. 74/2000

con previsione di sanzioni pecuniarie gravi e, per alcuni di essi, di sanzioni interdittive, come noto applicabili anche in via cautelare.

Sarà interessante seguire l’iter di tale proposta di legge.

Cliccare qui per il testo del DDL 2400/14

La Corte Costituzionale, con sentenza n. 218 del 9 luglio 2014, depositata il 18 luglio 2014 si è pronunciata affermando, tra l’altro, i seguenti principi:

– L’Ente chiamato a rispondere ai sensi del D.Lgs. 231/01 non può qualificarsi come “coimputato” con l’autore del reato presupposto;

– L’Ente chiamato a rispondere ai sensi del D.Lgs. 231/01 può essere citato nel medesimo procedimento come responsabile civile ex art. 83 c.p.p.

Il caso in sintesi

Il GUP presso il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 83 c.p.p. e del D.Lgs. 231/01 nella parte in cui “non prevedono espressamente e non permettono che le persone offese e vittime del reato non possano chiedere direttamente alle persone giuridiche ed agli enti il risarcimento in via civile e nel processo penale nei loro confronti dei danni subiti e di cui le stesse persone giuridiche e gli enti siano chiamati a rispondere per il comportamento dei loro dipendenti“.

Il GUP aveva rigettato la richiesta di costituzione di parte civile nei confronti dell’Ente nel procedimento 231, dopo aver investito la Corte di giustizia europea della decisione in merito alla compatibilità della norma italiana alla “Direttiva Europea sulla tutela delle vittime da reato”.

Cliccare qui per il testo della sentenza Corte Cost. n.218/14

La Corte di giustizia europea, con decisione del 12 luglio 2012 aveva infatti affermato che la norma italiana è compatibile con il Diritto Europeo in quanto nulla osta “a che, nel contesto di un regime di responsabilità delle persone giuridiche come quello in discussione nel procedimento principale, la vittima del reato non possa chiedere il risarcimento dei danni direttamente causati allo stesso, nell’ambito del processo penale, alla persona giuridica autrice di un illecito amministrativo da reato.

Il GUP, però, ha ritenuto di non poter accogliere neppure la richiesta di citazione dell’Ente come responsabile civile ex art. 83 c.p.p. sulla base dei seguenti passaggi logici:

– l’art. 83 c.p.p. escluderebbe la citazione quale responsabile civile di un soggetto coimputato nel medesimo procedimento penale;

– ciò costituirebbe una “garanzia” per l’imputato ed a norma dell’art. 35 D.Lgs. 231/01 tale disposizione relativa all’imputato si applicherebbe anche all’Ente;

–  pertanto, neppure nei confronti dell’Ente tratto a giudizio ex D.Lgs. 231/01 sarebbe ammissibile la citazione quale responsabile civile.

Escluse, quindi, sia la possibilità di costituirsi parte civile contro l’Ente, sia la possibilità di citarlo quale responsabile civile, la vittima del reato non potrebbe ottenere ristoro dei danni subiti da parte dell’Ente in alcun modo.

La decisione della Consulta

La Corte Costituzionale, oltre a dichiarare inammissibile la questione come proposta sotto vari profili, critica il ragionamento del Giudice rimettente, affermando che:

– l’art. 83 c.p.p. non esclude che possa essere citato un coimputato quale responsabile civile, ma tale citazione è ammissibile sotto condizione, producendo effetti solo nel caso in cui il coimputato citato sia prosciolto od ottenga sentenza di non luogo a procedere;

– tale norma non è posta a “garanzia” dell’imputato, ma per evitare che lo stesso soggetto sia chiamato a rispondere civilisticamente per il medesimo fatto sia come autore, che come responsabile civile per la condotta del coimputato;

comunque, l’Ente e l’autore del rato presupposto non possono qualificarsi “coimputati”.
Infatti, la Consulta evidenzia come “l’illecito ascrivibile all’ente costituisca una fattispecie complessa e non si identifichi con il reato commesso dalla persona fisica…, il quale è solo uno degli elementi che formano l’illecito da cui deriva la responsabilità amministrativa, unitamente alla qualifica soggettiva della persona fisica, alle condizioni perchè della sua condotta debba essere ritenuto responsabile l’ente e alla sussistenza dell’interesse o del vantaggio di questo. Ma se l’illecito di cui l’ente è chiamato a rispondere ai sensi del d.lgs. 231 del 2001 non coincide con il reato, l’ente e l’autore di questo non possono qualificarsi coimputati, essendo ad essi ascritti due illeciti strutturalmente diversi
.

Cliccare qui per il testo della sentenza Corte Cost. n.218/14

 

Alleghiamo qui di seguito alcune delle più importanti pronunce giurisprudenziali che affrontano aspetti del procedimento e del processo ex D.Lgs. 231/01.

Si ritiene che tali provvedimenti siano di particolare utilità per orientare l’attività del difensore dell’ente, soprattutto nella delicatissima fase iniziale e cautelare.

La rappresentanza dell’ente nel procedimento e nel giudizio

Corte Cost. 249/11

Tribunale Torino – GIP – ordinanza 22.11.2013

Cass. Pen. Sez. VI 41398/09

Misure cautelari interdittive – Presupposti di applicazione, sospensione o revoca

Trib. Gorizia – GIP -ordinanza 22.7.2013

Cass. Pen. sez. VI 10903/2013

Cass. Pen. Sez. II 326/14

Cass. pen. Sez. VI 6248/12

Sequestro 231 conservativo e preventivo

Cass. pen. Sez. V 33765/13

Cass. Pen. Sez. VI 3635/14

Decadenza e Prescrizione

Cass. Pen. Sez. V 20060/13

Costituzione di Parte Civile avverso l’Ente e Costituzione di Parte Civile dell’Ente sottoposto a procedimento 231 nei confronti dell’autore del reato presupposto

Trib. Milano – GUP – ordinanza 11.6.10

Cass. Pen. Sez. VI 2251/11

 

 

 

Uniamo qui di seguito, quali strumenti utili di lavoro, una Tabella dei reati presupposto della Responsabilità 231, aggiornata dopo il D.Lgs. 39/2014, ed una Tabella specifica per i reati presupposto ambientali.

Le Tabelle riportano per ciascun reato presupposto le sanzioni pecuniarie ed interdittive previste.

Cliccare sui seguenti link per scaricare le Tabelle:

Tabella reati presupposto 231

Tabella Reati Ambientali

Il D.Lgs. n. 39 del 4 marzo 2014 attuativo della Direttiva 2011/93/UE, all’art. 3, ha introdotto quale nuovo reato presupposto della responsabilità 231 l’adescamento di minori di cui all’art. 609 undecies c.p.
Tale reato è stato inserito in seno all’art. 25 quinquies D.Lgs. 231/01.

L’art. 12 della Direttiva Europea, infatti, disponeva quanto segue:

Responsabilità delle persone giuridiche

1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per assicu­rare che le persone giuridiche possano essere ritenute responsa­bili dei reati di cui agli articoli da 3 a 7 commessi a loro vantaggio da qualsiasi soggetto, a titolo individuale o in quanto membro di un organismo della persona giuridica, che detenga una posizione preminente in seno alla persona giuridica, basata su:
a) il potere di rappresentanza di detta persona giuridica;
b) il potere di adottare decisioni per conto della persona giuri­dica; oppure
c) l’autorità sull’esercizio del controllo in seno a tale persona giuridica.

2. Gli Stati membri adottano inoltre le misure necessarie per assicurare che le persone giuridiche possano essere ritenute re­sponsabili qualora la mancata sorveglianza o il mancato con­trollo da parte di un soggetto tra quelli di cui al paragrafo 1 abbiano reso possibile la commissione, a vantaggio della per­sona giuridica, dei reati di cui agli articoli da 3 a 7 da parte di una persona sottoposta all’autorità di tale soggetto.

3. La responsabilità delle persone giuridiche ai sensi dei pa­ragrafi 1 e 2 non pregiudica l’avvio di procedimenti penali contro le persone fisiche che abbiano commesso i reati di cui agli articoli da 3 a 7, che abbiano istigato qualcuno a commet­terli o che vi abbiano concorso.”

Il Parlamento europeo ha quindi previsto la necessità di introdurre tra i reati presupposto della responsabilità delle persone giuridiche i reati di abuso sessuale, sfruttamento sessuale, pornografia minorile, adescamento di minori per scopi sessuali, anche nelle forme dell’istigazione, favoreggiamento, concorso e tentativo.
L’art. 12 della Direttiva richiama dettagliatamente i criteri di responsabilità si cui agli artt. 5 e 7 D.Lgs. 231/01 in relazione alla posizione di apicale e sottoposto dell’autore del reato e rimarca il principio di autonomia della responsabilità dell’ente rispetto a quella penale della persona fisica.

Si deve evidenziare che il Parlamento europeo indicava la necessità di prevedere la responsabilità delle persone giuridiche anche per le fattispecie indicate all’art. 3 della Direttiva, corrispondenti ai reati di cui all’art. 609 quater c.p. (Atti sessuali con minorenne) e 609 quinquies c.p. (Corruzione di minorenne).
Pur comprendendo la difficoltà di ipotizzare un interesse o vantaggio per l’ente in relazione a tali reati, resta il fatto che sul punto la direttiva non risulta attuata.

Prosegue senza soluzione di continuità l’intento legislativo europeo e nazionale volto ad ampliare il novero dei reati presupposto della 231, inserendo tra essi ogni fattispecie che venga all’attenzione del legislatore medesimo quale fattispecie di rilevante allarme sociale.

Cliccare qui per scaricare la Direttiva 2011_93_UE

Cliccare qui per il D.Lgs.231.01 Aggiornato-marzo2014

Con la recente sentenza n. 16359 depositata il 15.4.2014, la Corte di Cassazione, Sezione II Penale, è ritornata ad occuparsi del tema dell’interesse e vantaggio ai fini della Responsabilità D.Lgs. 231/01 collegato al reato di formazione fittizia del capitale ex art. 2632 c.c. mediante sopravvalutazione di partecipazioni azionarie.

La Suprema Corte è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso avverso un’ordinanza del Tribunale di Bologna che ha confermato il sequestro di quasi 200 milioni di euro ai sensi degli artt. 19, 25ter e 53 D.Lgs. 231/01.
Già con sentenza n. 24557/2013 la Corte di Cassazione, Sez. VI Penale, si era pronunciata in merito annullando la precedente ordinanza del Tribunale di Bologna.

Il Tribunale di Bologna, adeguandosi da ultimo al dictum di tale precedente pronuncia della Cassazione, ha affermato che l’accertato incremento del capitale sociale, benchè fittizio, sarebbe stato realizzato anche nell’interesse ovvero a vantaggio della società, “poichè da quell’incremento era conseguito un aumento di affidabilità della medesima società nei confronti dei terzi ed una moltiplicazione del valore delle azioni, anche in conseguenza della diffusione di comunicati in ordine all’avvenuta capitalizzazione”.

La Corte di Cassazione, con la più recente sentenza ha ribadito il principio già espresso, confermando “che l’aumento fittizio di capitale costituì un’operazione effettuata nell’interesse della società, di cui questa si avvantaggiò e che, pertanto, il profitto che ne ricavò è confiscabile”.

cliccare qui per scaricare la Sentenza Cass. pen., Sez. II, n. 16359/2014

Con il Decreto Ministeriale n. 57 del 20.2.2014 del Ministero dell’Economia e delle Finanze, pubblicato il 7.4.2014, si è finalmente concluso l’iter normativo e regolamentare iniziato dall’art. 5 ter del DL 1/2012 sul “Rating di legalità”.

Ricordiamo che con il D.L. 1/2012, come convertito con Legge 27/2012 e successivamente modificato, all’art. 5 ter, il legislatore ha attribuito all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato il compito di elaborare ed attribuire un “rating di legalità” per le imprese con un fatturato minimo di due milioni di euro, secondo criteri demandati ad apposito Regolamento dell’Autorità stessa.
Per norma, di tale “Rating di legalità si tiene conto in sede di concessione di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, nonché in sede di accesso al credito bancario”.
L’importanza di tale Rating per l’accesso al credito bancario viene sottolineata dal medesimo art. 5 ter, laddove prevede che “gli istituti di credito che omettono di tener conto del rating attribuito in sede di concessione dei finanziamenti alle imprese sono tenuti a trasmettere alla Banca d’Italia una dettagliata relazione sulle ragioni della decisione assunta”.

Il 14 novembre 2012 è stato approvato il previsto Regolamento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, con parere favorevole dei Ministeri di Giustizia e dell’Interno, al fine di dettare i criteri di attribuzione del “Rating di legalità”.
In tale Regolamento, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 18.12.2012, è prevista quale requisito per l’attribuzione stessa del Rating, tra l’altro, l’assenza di condanne e di applicazione di misure cautelari di cui al D.Lgs. 231/01 (art. 2 co. 2 lett. c).
Secondo l’art. 3 del Regolamento, l’impresa vedrà incrementato il punteggio del “Rating di legalità” qualora abbia adottato “un modello organizzativo ai sensi del Decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231”.
L’effetto è evidente: l’adozione del Modello 231 inciderà direttamente sul “rating di legalità” e di ciò dovrà essere tenuto conto sia in sede di finanziamenti pubblici che in sede di accesso al credito bancario.

Ciò che ancora mancava era l’intervento regolamentare ministeriale che definisse le modalità in base alle quali del “Rating di legalità” si sarebbe dovuto tener conto.
La risposta è finalmente arrivata con il DM 57/2014 recante il “Regolamento concernente l’individuazione delle modalità in base alle quali si tiene conto del rating di legalità attribuito alle imprese ai fini della concessione di finanziamenti da parte di pubbliche amministrazioni e di accesso al credito bancario…”.

Secondo l’art. 3 DM 57/2014 i “sistemi di premialità” previsti per le imprese in possesso del Rating nell’ambito dei finanziamenti pubblici sono, tra l’altro:
– preferenza in graduatoria;
– attribuzione di punteggio aggiuntivo;
– riserva di quota delle risorse finanziarie allocate.

Per l’accesso al credito bancario (art. 4 DM 57/2014) il Rating incide su:
– riduzione di tempi e costi per la concessione di finanziamenti;
– determinazione delle condizioni economiche di erogazione.

Cliccare qui per scaricare:

Testo del Decreto Ministeriale 57/2014
Regolamento AGCM 14.11.2012
Testo dell’art. 5-ter DL 1/2012

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